“Gli Dei di Olimpia” – Intervista all’autore Valerio Iafrate

“Gli Dei di Olimpia” – Intervista all’autore Valerio Iafrate

di Alessandro Iacobelli

 

Lo sport e i suoi miti. Raccontare le gesta dei protagonisti delle Olimpiadi è un vero privilegio. L’ultima fatica letteraria di Valerio Iafrate, giornalista e responsabile della comunicazione degli eventi sportivi Rai, riavvolge il nastro dei ricordi con un titolo perfettamente calzante: “Gli Dei di Olimpia“.

Si parte da Atene 1896 per giungere all’edizione di Rio 2016. 120 anni e non sentirli per la manifestazione planetaria più amata e discussa. Dalle imprese degli atleti, con le loro vicende personali che in fondo hanno sempre qualcosa di unico e profondo, ai risvolti socio-politici che periodicamente presentano il loro conto.

Insomma, un testo tutto da scoprire. Ai microfoni del Nuovo Corriere Laziale l’autore Iafrate spiega nei dettagli il percorso che ha portato alla pubblicazione del volume edito da Albatros. Il giornalista originario di Arpino, partito dall’etere ciociaro nel periodo giovanile, ha successivamente completato una lodevole carriera tra Rai, Sky, ANSA e tanto altro.

 

  • Cosa rappresentano personalmente, come appassionato di sport e come giornalista, le Olimpiadi?

Lo sport, tutto lo sport, ha sempre fatto parte della mia vita, da sempre. Il mio primo ricordo, non a caso, è sportivo: avevo quattro anni, e in braccio a mio padre vidi Olanda-Germania Ovest. Fu una folgorazione, così come, due anni dopo, i Giochi di Montreal, con l’apparizione di Edwin Moses. Posso dire che l’amore per le Olimpiadi è cominciato allora, e non è mai scemato. Personalmente, quindi, rappresentano la migliore espressione dello sport, the greatest show on Earth (il più grande spettacolo del mondo), come dicono gli americani, e quando ho cominciato a fare il giornalista il mio sogno era quello di raccontarle. Per fortuna ci sono riuscito…

  • Come e quando nasce l’idea di realizzare un libro dedicato proprio alla storia dei Giochi ed ai suoi protagonisti?

Diciamo che l’idea ha cominciato a prendere forma dopo i Giochi di Rio, nel 2016, quando ho accettato l’offerta dell’allora Direttore Generale, Antonio Campo Dall’Orto, di lasciare Raisport per diventare il Responsabile della Comunicazione  degli eventi sportivi, e poi si è concretizzata negli ultimi due anni, tra il 2019 e l’inizio di quest’anno. Il lockdown mi ha dato una mano, diciamo, ma “Gli Dei di Olimpia” risponde al desiderio di percorrere un sentiero diverso nella narrazione dello sport, e anche se scrivere invece di utilizzare il microfono è sensibilmente diverso, il libro nasce proprio da quel desiderio.

  • C’è una vicenda che, più delle altre, ti ha particolarmente emozionato narrandola in questo volume?

Questa è una domanda alla quale è difficilissimo rispondere, quasi impossibile. Ce ne sono tantissime, da quelle più conosciute, come la sfida tra Owens e Long nella finale del salto in lungo a Berlino 1936 alla nascita del “Settebello” a Londra 1948, fino alle storie piene di umanità di Nawal El Moutawakel, prima donna marocchina a conquistare un oro olimpico – Los Angeles 1984 – e dell’algerina Hassiba Boulmerka, a Barcellona ‘92 (entrambe accomunate dalla loro condizione di donne costrette ad emigrare o a nascondersi per praticare sport), di Haile Gebreselassie e dei fratelli D’Inzeo, miti assoluti dell’equitazione, fino al canottaggio, sport che regala sempre emozioni nel segno di uomini eccezionali, come gli Abbagnale o Sir Steve Redgrave. E poi c’è Derek Redmond, il più sfortunato quattrocentista della storia olimpica, talento cristallino e sfortuna omerica. Sempre favorito per l’oro, mai nemmeno in finale: a Seul si ruppe il tendine d’Achille dieci minuti prima della semifinale, a Barcellona, quattro anni, si squarciò il quadricipite a 150 metri dall’arrivo, crollò a terra, si rialzò con l’aiuto del papà e saltellò fino all’arrivo, su una gamba sola, mentre la gente sugli spalti applaudiva e piangeva.

  • Quante edizioni delle Olimpiadi hai raccontato? C’è una alla quale sei affezionato maggiormente?

In totale sei, contando solo le estive, da Atlanta 1996 a Rio2016, ma se proprio sono costretto a scegliere allora dico Atene 2004 e Londra2012, la prima per ragioni professionali, la seconda per un motivo personale. Nel 2004 lavoravo a Skysport, e prima delle Olimpiadi, a maggio, passai una settimana ad Ifrane, in Marocco, dove Hicham El Guerrouji stava preparando le sue gare. Hicham, uno dei più grandi atleti mai visti – e persona eccezionale, dallo spessore umano straordinario – non era ancora riuscito a conquistare un oro olimpico, e a Sidney gli era sfuggito per 15 centesimi, che in una gara sui 5000 equivalgono a dieci centimetri. Perciò, la sua doppietta 1500-5000 ad Atene, oltre che riportare alla memoria le gesta di Paavo Nurmi, mi commosse, come l’oro di Stefano Baldini nella maratona, la gara simbolo dei Giochi Olimpici. Anche a Stefano mi lega un rapporto speciale, umano e personale, prima che professionale. Il ricordo personale più intimo, invece, è del 2012, Giochi di Londra: un’ora prima di USA-Australia, la semifinale del torneo di basket femminile (ero il telecronista Rai), ebbi la possibilità, grazie a Geno Auriemma, il coach degli Usa che conosco da una ventina d’anni, di stringere la mano all’allora First Lady, Michelle Obama, che era al Palazzo dello Sport a tifare per le ragazze: chiacchierammo per qualche minuto, e fu una emozione davvero intensa.

  • Nel corso della carriera hai seguito spesso edizioni del Giro d’Italia e del Tour de France. Ricordiamo, a tal proposito, il tuo precedente lavoro dedicato allo “Squalo dello Stretto” Vincenzo Nibali…

Sì, è vero. Il ciclismo, insieme all’atletica e al tennis – oltre naturalmente al calcio – è una delle discipline che ho seguito di più nel corso della mia carriera, favorito anche dal fatto di conoscere, come sosteneva il mio primo direttore, “il 95% degli sport che si praticano su questo pianeta”, e Giro e Tour hanno fatto parte della mia agenda dal 1997 al 2016, più o meno… E proprio con la vittoria di Nibali, quella rimonta che sembrava impossibile, a due tappe dalla fine, ho cominciato a scrivere di sport: in quel caso fu una retrospettiva dell’intera stagione, che ebbe il suo culmine proprio con la maglia rosa.

  • Ci sono progetti in cantiere per il prossimo futuro?

In effetti sì: ormai mi “sento” uno scrittore, e quando digito la parola fine penso subito ad un altro libro. Per ora sto lavorando sia ad un romanzo, il sequel de “Il cerchio di Venere”, il thriller scritto a quattro mani con mia moglie Martha che ha avuto un buon successo di critica e che diventerà una serie Tv, sia alla sceneggiatura dello stesso, ma Rai Libri mi ha chiesto di scrivere la biografia di uno dei più grandi calciatori italiani. Non posso dire di più, ma solo che spero di finire in tempo prima del Mondiale del prossimo anno.

Redazione

Il sito del settimanale 'Nuovo Corriere Laziale' testata che segue lo sport giovanile e dilettantistico della regione Lazio.

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