Quando la contestazione si trasforma in violenza pura: il caso Bernardini

Quando la contestazione si trasforma in violenza pura: il caso Bernardini

di Andrea Celesti

Due giorni fa si è verificato l’ennesimo episodio di pestaggio ai danni di un direttore di gara: Riccardo Bernardini, 24enne della sezione di Ciampino,  si trovava a dirigere Virtus Olympia Roma San Basilio contro Atletico Torrenova 1986, partita valida per il campionato Promozione del Lazio. Al termine dell’incontro, due tifosi non ancora identificati, si sono avvicinati verso il giovane arbitro e lo hanno pestato fino a provocargli un forte trauma cranico. In seguito a ciò, l’Associazione Italiana Arbitri (AIA) ha deciso per questa settimana di non inviare direttori di gara sui campi da gioco per le partite in programma nel campionati dillettanti, aggiungendo di valutare “nuove e analoghe iniziative al verificarsi di ogni ulteriore episodio di violenza grave“.  Viene da chiedersi se queste parole possano servire a smuovere la situazione, far riflettere anche un minimo  l’opione pubblica sull’ennesimo caso di violenza ai danni di un arbitro. Il Lazio rappresenta sicuramente una delle regioni con la percentuale più alta di aggressioni ad un direttore di gara (8 dall’inizio dell’anno) anche se nel resto d’Italia la situazione non è  poi cosi rosea. Gli altri paesi non sono estranei ad episodi del genere: di recente in Irlanda, al termine di una partita amatoriale, un arbitro è stato picchiato da alcuni giocatori che gli hanno provocato la rottura della mascella. La prima domanda che viene in mente è perché? Cosa spinge tifosi e giocatori a commettere atti del genere verso una persona che si trova lì semplicemente per dirigere una partita, molto spesso per pochi euro?

Ad arbitrare questo tipo di partite vengono chiamati quasi sempre giovani che, mossi da una forte passione per questo sport, calpestano l’erba dei campi di periferia per inseguire il loro sogno di arbitrare un giorno nei palcoscenici più presigiosi.  Giovani alle loro prime esperienze appunto, e come tali con tutto il diritto di poter commettere qualche errore senza dover stare con la paura di essere picchiati o insultati pesantemente durante e dopo la  gara da un tifoso o un coetaneo. Come un fratello maggiore con quello più piccolo, cosi i campionati professionistici dovrebbero dare il proprio esempio ma spesso accade esattamente il contrario. Pensiamo a Marcello Nicchi e Andrea Rizzoli, rispettivamente presidente dell’Aia e arbitro internazionale, che si sono visti recapitare di recente plichi di pallottole, oppure al rapporto del Viminale dello scorso febbraio che ha evidenziato numeri in aumento per quanto riguarda feriti, denunciati e arrestati.

Il presidente della Figc Gabriele Gravina ha parlato di “cultura che dobbiamo comunque cambiare“, l’assessore allo sport politiche giovanili Daniele Frongia di “sanzioni contro giocatori, tifosi e società“. E’ evidente che gli arbitri hanno bisogno di maggiori tutele, allo stesso tempo occorrono misure drastiche per limitare questo fenomeno che sembra crescere in maniera smisurata nel tempo. Non si può certo  ignorare tutto un sistema da rifondare, partendo proprio dal basso, da quei campi di periferia dove tutto ha inizio, dove si deve tornare a insegnare ai ragazzi il rispetto verso gli altri, la dignità e i valori veri. In questo senso è importante ribadire  il ruolo fondamentale dei genitori, che devono far capire ai loro figli l’importanza di sapere accettare una sconfitta o un semplice errore da parte di un arbitro. Iniziare a dare un buon esempio sugli spalti, dove spesso si verificano scambi verbali molto pesanti tra ‘tifoserie opposte’, non sarebbe una cattiva idea. Il calcio dilettantistico giovanile, non me ne voglia quello professionistico, potrebbe essere il migliore per talenti, bellezza e spettacolo del gioco. Per favore, facciamolo tornare tale…

Andrea Celesti

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